Questa recensione potrebbe iniziare così: I racconti di John Cheever sono il più bel libro uscito in Italia nel 2012. Poi qualcuno andrebbe in libreria; gli basterebbe leggere, per esempio, quelle quattro pagine che compongono “Il baco nella mela” e che cominciano così: “I Crutchman erano così felici, ma così felici, e così moderati in tutte le loro abitudini, e così contenti di tutto quello che gli capitava, che si era portati a sospettare che ci fosse un baco in quella mela così rosea e che lo straordinario colore rosato del frutto servisse solo a nascondere la gravità e la profondità dell’infezione”; immediatamente sarebbe meno scettico sull’elogio lapidario, e si convincerebbe a acquistare questo libro, nonostante la composizione (sono racconti!), la mole (850 pagine) e il prezzo (40 euro).
Oppure questa recensione potrebbe parlare della capacità che ha John Cheever – uno scrittore ancora di nicchia in Italia (questa traduzione completa delle short stories arriva trent’anni dopo l’uscita americana che fu un best-seller da un milione di copie e che gli valse il Pulitzer; i suoi libri sono stati editi da Longanesi, Garzanti, e infine Fandango grazie soprattutto all’interesse di Sandro Veronesi e Leonardo Luccone) – di far parte del nostro immaginario nostalgico senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. In un’intervista recente sul New York Times, Matthew Weiner, il creatore di Mad Men, ammetteva il suo debito assoluto nei confronti di questo cantore dell’America dei suburbia, tale da averlo omaggiato facendo vivere i protagonisti, Don e Betty Draper, negli anni del loro matrimonio proprio a Ossining (la città in cui dopo il successo commerciale di Cronache della famiglia WapshotCheever si trasferì nel 1961 per morirci nel 1982) e proprio in un’immaginaria Bullet Park Road (doveBullet Park è il titolo del terzo romanzo di Cheever, 1969).
Case basse, vialetti alberati, grigliate in giardino, qualche bicchiere prima di cena, sigarette aspirate con voluttà, adulteri immaginati e vissuti… Quel mondo ipernormale ma evocativo che conosciamo in ogni singola goccia che l’innaffiamento automatico del backyard deposita sull’erba tagliata la domenica dai padri di famiglia. E qui la questione si potrebbe direttamente allargare e porre in un altro modo: perché questo grumo di famiglie apparentemente perfette in preda invece a ipocrisie lancinanti, tensioni carsiche (da Revolutionary Road a Le vergini suicide, da American Beauty a Desperate Housewifes), perché questa umanità di tragiche convenzioni sociali è così simbolica di come la vita accada e si plasmi non solo nelle periferie USA ma nell’intero universo?
Leggere questi racconti di Cheever ci dà una parziale risposta. Per noi, dall’altra sponda dell’Atlantico, monadi esplose di relazioni che non sono neanche più disfunzionali, non è tanto interessante vedere come si incrini il sogno americano, come sotto l’ombra degli alberi allineati lungo i viali le velleità diventino incubi e gli affetti paranoie (leggete “Oceano”, in cui il protagonista si convince che la moglie lo stia progressivamente avvelenando). L’importante non è capire come “in questo mondo così prospero, equo e vincente – dove persino le donne delle pulizie nel tempo libero si esercitano sui preludi di Chopin – debbano avere tutti un’aria così delusa”, come scrive in quella dichiarazione di poetica che è il racconto “La morte di Justina”. Così come non serve a molto definire John Cheever il Cechov d’America per quel suo palmare, favoloso talento nel descrivere questa abitudine che hanno gli esseri umani di autoingannarsi, di immaginarsi che la felicità li aspetti sempre in un altrove, che sia Mosca, o l’Europa, un matrimonio perfetto, un definitivo riconoscimento sociale.
No, quello che veramente ci può incantare di questo scrittore è l’amore, l’amore generosissimo, strabordante che ha per i suoi personaggi. Tutte le volte che temiamo – a poche righe dalla fine di ogni racconto – che Cheever li lasci in balia della loro fragilità e li condanni a un destino di autodistruzione, ecco che invece – come scrive in una sorta di a parte in “I gioielli dei Cabot” – le cose vanno diversamente. (“I bambini annegano, donne bellissime vengono maciullate in incidenti stradali, le navi da crociera affondano e gli uomini muoiono di morte lenta nelle miniere o nei sottomarini, ma non troverete niente di tutto questo nei miei racconti. Nell’ultimo capitolo la nave rientra in porto, i bambini vengono salvati, i minatori vengono estratti da sottoterra”)
Fernanda Pivano, che lo mise nel mucchio dei suoi amici americani, addolorati, vagamente depressivi, sbagliava. Cheveer non è uno scrittore clinico come un Carver, sferzante come un Ford, autoindulgente come i beat, spietato come uno Yates, rigoroso come Hemingway e i suoi seguaci minimalisti. Cheever è uno scrittore che trasmette buon umore, se non addirittura gioia. Perché la sua forza sta proprio nel non considerarsi un narratore morale: “Io non lavoro con la trama. Lavoro con l’intuizione, la percezione, i sogni, i concetti. La trama implica la narrazione e un sacco di stronzate. Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre all’eccellenza”, così rispondeva alla Paris review nel 1976. Questa beata incoerenza al limite della schizofrenia che esplode nei pensieri dei suoi personaggi (l’empatica prefazione di Andrea Bajani legge la sua narrativa come maieutica del mondo: Cheever una sorta di radio universale), un critico la può facilmente associare alla sua bisessualità mai risolta, o al suo cattolicesimo ovviamente conflittuale. Ma, se lasciassimo da parte le facili polarità convenzioni-autenticità, perbenismo-trasgressione, potremmo godere di uno scrittore incredibile non tanto per la sua capacità di ritrarre la società, né per la sua spiazzante visione morale, quanto per una sorta di contemplazione teologica della natura umana. Proprio perché conosceva la verità sul peccato, sapeva omaggiare anche la forza della grazia. Due guerre mondiali, la paura per un’economia che potrebbe collassare da un momento all’altro, l’incubo nucleare: e il mondo è ancora lì. Per questo lo sguardo di Cheever è quello dell’innamorato, di colui che sempre perdona, che sa che le cose si aggiusteranno. Potete ritrovarlo in ogni pagina di questi racconti (“Era una di quelle domeniche di mezza estate in cui tutti se ne stanno seduti e continuano a ripetere: “Ho bevuto troppo ieri sera”, come comincia il virtuosistico “Il nuotatore”; oppure “È autunno. Le foglie hanno cambiato colore. Cadono a centinaia, anche se non c’è vento. Penso che per riuscire a vedere qualsiasi cosa – una foglia o un filo d’erba – bisogna conoscere l’intensità dell’amore”, come inizia “Il quarto allarme”). Se imparate a fidarvi, potrete riconoscerlo nei romanzi che Feltrinelli ha appena ristampato in tascabile (Wapshot e Bullet Park), o ancora nei Diari che sempre Feltrinelli farà uscire in autunno sempre con la reverenda traduzione di Adelaide Cioni. Capirete facilmente che in quell’umanità sospesa tra una crisi planetaria come quella del ’29 e un viaggio sulla Luna come quello del ’69 ci siete anche voi; ma che con lo sguardo di Cheever accanto vi sentirete meno smarriti. “L’ondata di mansarde fintissime, di finestre fintissime, con i vetri piccoli, di candele elettriche, è il grido di un popolo che si sente solo, solo. E dopo che abbiamo aperto mille porte tagliate grezzamente, con le loro finiture di finto ferro battuto; dopo esserci scaldati davanti a un fuoco elettrico e aver letto un menu che è la riproduzione di qualcosa di due secoli fa, sentiamo che il passato non ci sfamerà e non ci capirà e non ci amerà; e allora ci rivolgiamo al futuro, a quello spazio fra le stelle dove ci aspetta il nostro amore”.