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venerdì 26 settembre 2014

Roland Barthes, Il brusio della lingua



Un post dell'anno scorso lasciato lì tra le bozze.

[ il brusio non è altro che il rumore di un’assenza di rumore, cosi, riferito alla lingua, sarebbe quel senso che fa intendere, un’assenza di senso, oppure – ed è lo stesso – quel non-senso che farebbe intendere in lontananza un senso ormai liberato da tutte le aggressioni di cui il segno, formatosi nella «triste e selvaggia storia umana», è il vaso di Pandora.]




Il bruscio della lingua

““La parola è irreversibile, questa è la sua fatalità. Ciò che è stato detto non può più essere modificato, se non aumentandolo: correggere vuoI dire qui, stranamente, aggiungere. Parlando non posso mai cancellare, sopprimere, annullare; tutto quel che posso fare è dire «annullo, cancello, rettifico» – insomma, ancora parlare. Chiamerò «balbettio» tale singolarissimo annullamento per via di aggiunte.
Il balbettio è un messaggio due volte mancato: da una parte lo si capisce male, ma dall’ altra, con un certo sforzo, lo si capisce comunque; non è veramente né nella lingua né al di fuori di essa: è un rumore del linguaggio paragonabile a quella serie di crepitii con i quali un motore ci segnala di non essere a punto; è proprio questo il senso del perdere colpi, segno sonoro di un tracollo che si profila nel funzionamento dell’oggetto. Il balbettio (del motore o del soggetto) è, in sostanza, una paura: ho paura di dovermi fermare strada facendo.
La morte della macchina: può essere dolorosa per l’uomo, se la descrive come quella di una bestia (si pensi al romanzo di Zola). Insomma, per quanto la macchina sia poco simpatica (perché costituisce, nella figura del robot, la peggiore delle minacce: la perdita del corpo), esiste tuttavia in essa la possibilità di un tema euforico: il suo buon funzionamento; temiamo la macchina perché funziona da sola, ne traiamo piacere perché funziona bene. Ora, come le disfunzioni del linguaggio sono in un certo senso riassunte in un segno sonoro, il balbettio, cosi il buon funzionamento della macchina si manifesta in un essere musicale: il brusio.
Il brusio è il rumore di ciò che funziona bene. Ne deriva il seguente paradosso: i1 brusio denota un rumore limite, impossibile, il rumore di ciò che, funzionando alla perfezione, non fa rumore; il brusio è l’evaporazione stessa del rumore: il tenue, il confuso, il tremulo sono percepiti come i segni di un annullamento sonoro.
Il brusio viene dunque dalle macchine felici. Quando la macchina erotica, immaginata e descritta mille vo1te da Sade, agglomerato «pensato» di corpi i cui luoghi d’amore sono accuratamente accordati gli uni agli altri, si mette in moto, per i movimenti convulsi dei partecipanti, palpita ed emette un leggero brusio: insomma, funziona, e funziona bene. Altrove, quando i giapponesi di oggi si dedicano in massa, in grandi sale, alle slot-machines (che chiamano Pachinko), gli ambienti in questione sono pieni dell’ enorme brusio delle palline, e tale brusio significa che qualcosa, collettivamente, funziona: il piacere (per altri versi enigmatico) di giocare, di muovere il corpo con precisione. Il brusio infatti (come si vede dall’esempio sadiano e da quello giapponese) implica una comunità di corpi: nei rumori del piacere che «funziona» nessuna voce si leva al di sopra delle altre o si spegne, nessuna si presenta per sé; il brusio è appunto il rumore del godimento plurale – ma non certo di massa (la massa ha una sola voce, e terribilmente forte).
E la lingua, può produrre brusio? In quanto parola, sembrerebbe condannata al balbettio; come scrittura, al silenzio e alla distinzione dei segni: in ogni caso, rimane sempre troppo senso perché il linguaggio giunga a un godimento proprio alla sua materia. Ma quel che è impossibile non è inconcepibile: il brusio della lingua forma un’utopia. Quale utopia? Quella di una musica del senso; con questo voglio dire che nel suo stato utopico la lingua sarebbe allargata, o addirittura snaturata, sino a formare un immenso tessuto sonoro nel quale l’apparato semantico si troverebbe irrealizzato; il significante fonico, metrico, vocale, si dispiegherebbe in tutta la sua sontuosità, senza che mai un segno se ne distacchi (venga anaturalizzare questa pura distesa di godimento), ma anche – ed è qui il difficile – senza che il senso sia brutalmente espulso, dogmaticamente precluso, insomma castrato. Nel suo brusio, affidata al significante da un moto inaudito, ignoto ai nostri discorsi razionali, la lingua non perderebbe tuttavia di vista un orizzonte di senso: il senso, indiviso, impenetrabile, innominabile, sarebbe comunque posto in lontananza come un miraggio, farebbe dell’esercizio vocale un duplice paesaggio, dotato di uno «sfondo»; ma, per evitare che la musica dei fonemi sia lo «sfondo» dei nostri messaggi (come avviene nella nostra Poesia), il senso sarebbe qui il punto di fuga del godimento. E come, nel caso della macchina, il brusio non è altro che il rumore di un’assenza di rumore, cosi, riferito alla lingua, sarebbe quel senso che fa intendere, un’assenza di senso, oppure – ed è lo stesso – quel non-senso che farebbe intendere in lontananza un senso ormai liberato da tutte le aggressioni di cui il segno, formatosi nella «triste e selvaggia storia umana», è il vaso di Pandora.
Si tratta senza dubbio di un’utopia; ma l’utopia è spesso ciò che guida le ricerche di avanguardia. Talora, dunque, incontriamo qua e là quelli che potremmo definire esperimenti di brusio: come certe produzioni della musica post-seriale (è molto significativo che questa musica attribuisca un’estrema importanza alla voce, che manipola, cercando di snaturare in essa il senso, ma non il volume sonoro), certe ricerche radiofoniche, o ancora gli ultimi testi di Pierre Guyotat o di PhiIippe Sollers.
Fatto ben più importante, noi stessi possiamo condurre questa ricerca intorno al brusio, e possiamo farlo nella vita, nelle avventure della vita; in ciò che la vita ci offre in maniera inattesa. L’altra sera, vedendo il film di Antonioni sulla Cina, ho avvertito improvvisamente, all’apparire di una nuova sequenza, il brusio della lingua: nella strada di un villaggio alcuni bambini, appoggiati a un muro, leggèvano a voce alta, ciascuno per sé, tutti insieme, un libro diverso; era un brusio ben riuscito, come una macchina che va bene; il senso era per me doppiamènte impenetrabile, sia perché non conosco il cinese sia per la confusione di quelle letture simultanee; eppure sentivo, in una specie di percezione allucinata tanto riceveva intensamente tutta la finezza della scena, la musica, il respiro, la tensione, l’applicazione, insomma qualcosa di simile a uno scopo. Come! Basta forse parlare tutti insieme per ottenere che la lingua produca il suo brusio nel modo raro, impregnato di godimento che ho appena descritto? Evidentemente non è cosi; alla scena sonora è necessario un erotismo (nel senso più lato del termine) lo slancio o la scoperta o ancora il semplice accompagnamento di un’emozione: questo dava appunto il viso dei bambini cinesi.
Mi immagino oggi un po’ alla maniera dei Greci antichi, cosi come li descrisse Hegel: interrogavano, sosteneva, con passione e senza stancarsi il brusio delle fronde, delle sorgenti, dei venti, insomma il fremito della Natura, per trovarvi il disegno di un’intelligenza. Ed io interrogo il fremito del senso ascoltando il brusio del linguaggio – di quel linguaggio che è la mia Natura peculiare di uomo moderno.””

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