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giovedì 30 ottobre 2014

Franco Arminio

I carpentieri del nulla
Ogni volta che chiedo a qualcuno: «Cosa c’è in questo paese?», mi rispondono sempre che non c’è niente e che non succede niente. C’è una sorta di nichilismo paesano a cui è difficile opporsi. Sono anni che aspetto di vivere in un tempo di fervore e invece metto i bottoni ai vestiti dei morti. Me lo diceva ieri sera al telefono il celebre latinista Antonio La Penna, mi parlava della vecchia melma secolare di un popolo servile. Parlava del Sud, parlava di paesi, ma pensava all’Italia intera. Stranamente a conversazione finita un poco mi sono sentito in pace, mi sono messo con la testa in sciopero a consumare le ultime ore del giorno senza aspettare più niente. La notte però ha dissolto la felice rassegnazione e stamattina sono di nuovo qui che aspetto un brivido, un palpito da questa vecchia Italia grigia e rotta. E invece non succede niente pure stamattina. Devo imparare ad amputare l’impazienza. Siamo tutti in esilio, tutti perduti e perdenti, incapaci di condividere la sconfitta. Non ci sono furori, non ci sono speranze. I paesi da questo punto di vista sono l’avanguardia del mondo. Tutto è intimamente domestico, come se la vita pubblica somigliasse alla vecchia che si riscalda l’acqua per farsi una bustina di malva, al vecchio che si gira nel suo letto cercando un po’ di fresco. Siamo una cooperativa di agonizzanti e ogni tanto prestiamo alla morte qualcuno dei nostri operai: carpentieri del nulla che lavorano sulle impalcature delle merci. Consumiamo le ore cercando da ogni ora un profitto che non arriva. E allora non c’è da istigarsi più a niente. Bisogna stare in mezzo al mondo come stanno le nuvole. Dimettersi dalle proprie insofferenze. Lasciare il cane a rovistarci dentro e uscire, guardare avanti, aprirsi come si apre un’arancia, donare le nostre vertebre ai passanti.
da berlusconi ai pezzenti
uno che governa per non essere governato
andrebbe guardato con sospetto
ma gli italiani amano i furbi
che danno l'idea di essere furbi
ma non cattivi, perché gli italiani
non sono cattivi.
ora però vado subito da un'altra parte:
stamattina leggevo poesie
di una giovane donna sposata
e sentivo che tutta la poesia veniva
da ciò a cui lei si nega.
ora ho un leggero mal di testa,
potrei anche dire che ho male al paese,
io conosco il punto in cui è collocata la mia
milza o il mio stomaco, non so in quale punto
di me è collocato il mio paese, sarebbe buono
saperlo in modo da predisporre cure
o eventuali interventi chirurgici: il paese
è un tumore o una cisti benigna?
poco fa mentre finivo di pisciare ho pensato
che mando in fretta queste cose che scrivo
come se le scrivessi da un carcere
e quelli che stanno fuori potessero mandarmi
la chiave per liberarmi. stasera sto scrivendo
senza un spinta particolare, posso dire che alla televisione
cercavano di riabilitare il nucleare, ma per dire
di come gli uomini usano il pianeta
e per dire delle fabbriche e delle religioni
si deve considerare l'idea che gli uomini
hanno del morire, se gli uomini continuano a scollarsi
dalla morte saranno sempre più intimamente morti,
anche questa è una cosa buttata lì, chissà a chi avrà pensato
in un millesimo di secondo il mio cervello prima di formulare
questa frase, avanzo dicendo una cosa e avanzando
una mia perplessità a ciò che dico, in televisione
accade il contrario. ma ora dovrei andare a letto,
io qui consumo la mia pila senza che nessuno voglia luce
e se pure sapessi fare il buio
non avrei clienti o forse solo i timidi e i pezzenti.

LA RELIGIONE DELLA TERRA
Finalmente sto meglio-sento di essere nuovamente legato alla terra!
Peter Handke
Non sono figlio di contadini. Non ho mai lavorato la terra, non vivo in campagna. Insomma, non ho molti titoli per parlare di agricoltura, vecchia o nuova che sia. In effetti io non conosco i nuovi agricoltori. Conosco gli anziani che una volta erano contadini. Li trovo sperduti, in paesi sperduti. Hanno le radici in un tempo lontano e adesso sono qui in un tempo che non capiscono, mi piace pensare che sono passati dalla civiltà della pietra a quella della piastrella. Sono in esilio. Hanno sguardi e posture che a volte commuovono: il lirismo degli sconfitti.
Tutto questo forse c’entra poco con le nuove attività agricole, sta di fatto che un vecchio contadino mi fa più simpatia di un vecchio borghese. E sento che la via della campagna è la via del futuro. Non si tratta di dismettere la civiltà industriale, ma di metterla al servizio del mondo agricolo. Non so se lavorare la terra servirà a salvare il mondo, ma ho fiducia in chi fa il formaggio, mi piacciono i filari delle viti, gli alberi di arance, le balle di fieno. E provo simpatia anche per le terre vuote, per i paesaggi inoperosi. Mi piacciono i sassi, le crete, mi piacciono i cardi e i fiori che spuntano ai bordi delle strade.
La nuova agricoltura significa anche che lo sfruttamento della terra non deve essere forsennato. Fare poco e bene. Sono per un agricoltura poetica, anche se non so bene cosa possa significare e in che misura possa esistere. Di certo alcune cose non mi piacciono del contadino che si fa imprenditore agricolo: non mi piacciono, solo per fare due esempi, le buste di concime lasciate nei solchi, il disordine intorno alle masserie.
Non mi piace che neppure il fatto che le campagne sono troppo spesso abitate da persone che non lavorano i campi, ma stanno lì solo perché hanno trovato lo spazio per dare sfarzo alle proprie villette. Io non amo chi dà le spalle al suo paese. Io amo il grano che cresce. Amo gli orti e chi porta agli amici i prodotti degli orti. Mi commuove un amico che mi regala una bottiglia di vino.
Nella terra dovrebbe avvenire una nuova alleanza. I giovani insieme agli anziani, gli uomini e le donne. Bisogna dare alla parola contadino un prestigio che non ha mai avuto. In televisione oltre all’andamento della borsa si dovrebbe parlare dello stato del raccolto. L’unica avvertenza che mi sento di introdurre è che la terra non deve diventare una nuova retorica e così pure l’ecologia o lo sviluppo sostenibile o la decrescita. Lavorare in agricoltura non risolve niente se l’idea di fondo rimane quella del ricavo, se l’economia rimane il centro di tutto. Quando parlo di nuovo umanesimo delle montagne vagheggio una società in cui l’uomo si decentra, dismette vecchie e nuove arroganze, facendosi creatura tra le creature e non velleitario padrone di tutto.
La nuova agricoltura serve ad allontanarci dal’egoismo e dal disincanto, dalle tossine della società della comunicazione che sta producendo sempre più una comunicazione senza società. Gli umani che stanno nella terra possono abbrutirsi come quelli che lavorano in borsa, dipende molto dall’aria che tira. Una nuova spinta rivoluzionaria è fondamentale per evitare che tutto alla fine si risolva in furbizie ed egoismi.
Ho sempre pensato che un uomo che sappia usare il computer e riconoscere un pero selvatico è un uomo interessante. So che c’è tanto lavoro da fare per dare lavoro ai giorni nel settore agricolo. Ma io non posso fingere di guardare la faccenda da questa prospettiva. A me non interessa il raccolto ma il grano che cresce, possibilmente coi papaveri dentro. Io non zappo, ma so che una passeggiata in campagna dà più energia di una passeggiata in città. So che abbracciare un albero dà energia. So che un cibo fatto con ingredienti sani e freschi ti dà molta più vita di una vincita in borsa.
Dobbiamo essere molto generosi con chi lavora nei campi e con chi sta pensando a come organizzare meglio questo lavoro, come avvicinare i giovani alle fatiche rurali. I prossimi anni avremo molte persone su questa strada, e sarà un affollamento benefico. Nella terra c’è posto. Le persone possono incontrarsi, possono formare delle piccole comunità, democratiche e calorose. Alla fine l’agricoltura è anche una forma di preghiera. C’è da pensare che la zappa ha qualche parentela lontana con la teologia. Contadini di tutto il mondo, ci sarebbe da pregare per voi, perché voi siete la più bella religione del mondo.

un pezzo da nevica e ho le prove
Io sono un ipocondriaco, ipocondria maior, una forma di psicosi che consiste in una continua osservazione del proprio corpo, conclave di sintomi minacciosi e mutevoli, ma sempre segni di una fine che s’immagina prossima.
L’ipocondriaco sente di avere il corpo malato e questo fa sentire quanto ci sia estraneo: noi apparteniamo al nostro corpo ma esso non ci appartiene. Allora ecco che diventiamo spioni, voyeur di noi stessi, alla ricerca del traffico losco che il nostro corpo intrattiene coi demoni. Dentro di noi c’è un sabotatore e chi ne avverte lucidamente la presenza non può lasciarsi andare proprio a niente, né alle donne, né alla scrittura. Si sta, sotto il fuoco di un cecchino che non spara, prende solo la mira.
Noi siamo i coloni del nostro corpo e quando raccogliamo qualcosa abbiamo sempre il sospetto che non siano frutti da mangiare, ma semi per fare altri raccolti. Questo noi non mi convince, ma ormai la frase è fatta.
Noi siamo traslocatori: porto in me le tue parole, porto in te le mie, e così per gli sguardi, i sentimenti e tutto il resto. Qui rischio di perdermi e mi fermo. Comincio ad avere un poco d’ansia. Vado a fare una pedalata.
La vita l’ho lasciata da ragazzo, l’ho lasciata quando ci potevo entrare, ho scelto lentamente un’altra strada ed ora sono qui a dire che non ho nessuno intorno, nessuno che delira insieme a me.
Lo avevo chiesto alle donne. Avevo una foga certe volte nel dire di un rapporto che andasse oltre il corpo, oltre il cuore. Non hanno risposto.
Nessuno ha colpa, loro hanno altre vite, altri corpi. Le donne e gli uomini non sanno nulla oltre la briciola del mondo.
Un minuto acceso che accende tutti gli altri minuti, io sto in un fuoco, la mente è una vampa, nessuno mi vede per quel che sono, una striscia, una striscia di fuoco.
Comunque il mio problema è la paura di morire, e questa idea che il mio corpo possa cedere da un momento all’altro, come se fossi una torre colpita da un aereo.
Adesso cado nelle frasi.
Ora non so dove andare con queste parole, io sono un gruppo di cani con la lingua di fuori. Il foglio è la campagna.




siamo troppi
non capiamo più gli alberi e gli animali
siamo depressi
siamo sempre a caccia di un ricavo
parliamo troppo senza dire niente

il benessere materiale è per pochi e fa male

anche a loro

il progresso è un delirio al capolinea

il futuro non vuole arrivare

il presente è un pozzo
le soluzioni sono il nostro problema più grande….

non si sa 
se siamo nell’amore
o nella cattiveria,
non si sa 
se siamo vicini
o lontani.
non c’è più spazio
non c’è più tempo,
c’è un attimo fermo
in cui tutto è mischiato,
visibile e invisibile
ciò che dura e ciò che appare.
non c’è più sogno 
non c’è più ragione
nel telemondo della merce
e della rete.

noi pensiamo ancora al mondo
ma il mondo non può più pensarci,
il mondo non c’è più,
c’è un cane
un albero 
un bacio.
affidiamoci al margine 
al frammento.
la vita è in fuga.
ogni attimo è un testamento.


L’Europa che vorrei è una comunità che si prende cura delle sue donne e dei
suoi uomini. 

L’Europa che vorrei non ha confini, non ha campi di accoglienza, non ha permessi di soggiorno, non ha barriere, non espelle, non rispedisce a casa i profughi, non li abbandona a morire in mare, non presidia le coste, non spende enormi quantità di denaro per difendersi da nemici che non esistono più.
L’Europa che vorrei si apre sul Mediterraneo come sempre è stato, lo guarda come una porta sul mondo e non come una proprietà da gestire. 
L’Europa che vorrei è attenta ai suoi giovani, al loro futuro e investe nella loro istruzione, nella formazione, gli permette di spostarsi davvero, di studiare in Italia e di lavorare in Francia, in Germania senza che si sentano fuori posto, lontani da casa. Li fa sentire parte di una società che non valuta le persone per il loro conto in banca, per la casa che possiedono, per il quartiere in cui abitano, per quanto guadagnano. 
L’Europa che vorrei è un posto nel quale la cultura, e la cultura umanistica in particolare, è fondamentale, un posto in cui la storia, l’arte, la creatività contano quanto la tecnologia e l’industria. É un luogo che non distingue tra aree depresse ed aree sviluppate perché ha una nuova idea di sviluppo che non è solo economia, non è solo sfruttamento, non è solo PIL, ma qualità della vita, solidarietà, unione vera e forte e convinta. 
L’Europa che vorrei sa che la terra vale quanto le fabbriche e la tutela, la protegge dagli scempi. 
L’Europa che vorrei mette insieme la scienza e la filosofia e ne fa una sua forza, non ha nostalgia del passato ma lo considera un bene imprescindibile e annulla così il debito pubblico della Grecia perché solo in Grecia c’è un luogo come l’Acropoli, perché ogni singolo frammento di questo territorio che chiamiamo Europa è unico, irripetibile, inestimabile. 
L’Europa che vorrei rifiuta il cinismo freddo meccanico e disumano della finanza, della speculazione, del profitto, dello spread, dei numeri, si oppone a questo modello ormai vecchio e ammuffito. Lotta tutta insieme perché tutti abbiano una vita migliore, perché siano felici, perché crescano di numero, anche aprendo le frontiere, collaborando, mescolandosi con altre culture, imparando da esse.
L’Europa che vorrei ha dimenticato le crociate e le persecuzioni e le guerre e i trattati di pace sempre infranti, non vuol più sentire parlare di questioni nazionali, di separatismi, di patria e di identità. É un luogo nel quale le regole esistono ma sono regole giuste, condivise. É un luogo di bellezza. Un luogo che offre un esempio nuovo di vivere insieme, una rivoluzionaria e sorridente frontiera per il viver comune, per l’umanità. Uno schiaffo al sistema dell’utile e del commercio di beni e persone, uno schiaffo fastidioso e pungente, ma ora più che mai necessario.