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giovedì 23 giugno 2016

Giuseppe Genna, Tirata antitaliana

Non si tratta di avercela con l’Italia, di lamentarsi di questo Paese, surreale come una landa impazzita e un tessuto allegramente lacerocontuso da quando sono nato. E’ che in qualche modo il tempo che si vive è la conseguenza logica del tempo che lo ha preceduto. Che lo ha preceduto di quanto, precisamente? La storia delle stanchezze e degli assassinii italiani dura dalla fondazione di Roma fino a noi. Io mi limito a quanto sto vivendo da un quinquennio. Il contesto mi sembra clamorosamente peggiorato, dal punto di vista del funzionamento sociale, della produzione di cultura, dell’elaborazione estetica, della consapevolezza politica. Gli italiani, col loro mainstream, fanno schifo, sembrano popolare una Disneyworld dell’orrore e della stolidità. 

Giuseppe Genna, 2016: NICHILISMI DEI MIEI COETANEI MESSI IN CROCE SEMPRE

Quando penso ai miei coetanei, che generalmente non stimo affatto, a parte le evidenti eccezioni, di cui spesso tento di diventare amico – quando penso ai miei coetanei, che sempre pensano di essere stati messi in croce dai tempi, ho l’impressione che possano assumere tre tipologie di atteggiamenti rispetto al tempo che tutti viviamo.
La prima modalità è costituita da un insensato entusiasmo per il cambiamento, che si contrae all’accelerazione tecnologica, prescindendo dal mutamento antropologico che la accompagna, e tuttavia nel loro brivido orgasmatico per il nuovo si pongono a dire e fare cazzate, poiché per costoro l’accelerazione tecnologica si rattrappisce nelle uscite sul mercato e nei piccoli annunci sulla colonna destra dei quotidiani on line – si parla di quelli entusiasti dell’e-book, che si comperavano il Kindle quanto il Kobo, poi se ne stancavano, come quando da bimbi si rompevano di giocare con la stessa macchinina, e allora l’incidenza percentuale dell’e-book sul mercato del libro tornava di colpo un dato ininteressante, poiché costoro erano già lì ad attendere Oculus Rift con una VR a bassa definizione e quindi inizialmente deludente, ma loro si esaltano così, gli ci vuole poco, e pensano che i figli faranno il loro corso e li chiamano “millennials” e va benissimo che con lo smartphone ricavano la traduzione della versione da Tito Livio in un nonnulla. 
La seconda reazione dei miei coetanei, che si impegnano atleticamente o si imbolsiscono nonostante le partite a calcetto e le sedute in sauna da Getfit e i lavori da ex élite creativa, è un vago senso di disperazione che li pervade insieme a una molcedine, a un flebile pianto su se stessi e la propria storia antieroica, prima si lamentavano che non partecipato a guerre mondiali e ora si sentono schiacciati tra un tempo predigitale e l’epoca dei tablet e di Snapchat, si sentono abitanti di un mondo che non gli appartiene del tutto, però ci vivono e, sia pure con grande stress e preoccupazione e molte gocce di Lexotan, riescono a prosperarci, a iperpreoccuparsi per i figlioletti, invidiandoli perché sono platici e crescono nell’amnio digit, a cui loro sono in parte esterni e in parte non destinati, perché vengono da un’epoca in cui c’era la Fgci e, al limite, anche Andreotti non andava bene; perciò sopravvivono, nei baretti o negli incontri tra mamme alle elementari o alle medie, il gruppo whatsapp dei genitori di classe non se lo perdono, ma alle mostre ci vanno, si indignano per quanto sono brutte le pubblicità, scuotono la testa all’emersione dell’ultimo youtuber, lamentano il crollo dell’attenzione, hanno meno amanti rispetto a chi è più vecchio di loro anche soltanto di sei o sette anni. La terza reazione che i miei coetanei oppongono a questo tempo si può definire “choc nichilistico”: sono talmente scoraggiati dal mutamento di paradigmi, il quale è totale, al punto che la stessa nozione di paradigma sembra oramai inadatta a essere enunciata o applicata, e sono così sconcertati dalla velocità con cui la tecnologia evolve in coincidenza con l’antropologia che li circonda ambientalmente, da ritenere che non valga più la pena, in nulla: inpegnarsi politicamente, studiare, leggere, godere, intervenire, partecipare divengono esercizi liminali di un’azione oramai disersa nella sua capacità di incidere nel e sul mondo, al limite è un’atletica privata, da condursi in privato, e quindi è deprivata: di senso, di appartenenza a qualcosa di più largo ed emotivo.
C’è una percentuale irrisoria di persone che pensano a cosa sta accadendo e sta per accadere: al fatto che il futuro è crollato nel presente e il canone è senza canone. Costoro, appunto, pensano, e, nel caso che soffrano l’accelerazione, come accade a me, stanno vedendosi impartita una profonda e decisiva lezione di impermanenza.

martedì 21 giugno 2016

Romain Gary

Il solo posto al mondo in cui si può incontrare un uomo degno di questo nome è lo sguardo di un cane.

Cerco di calmarmi chiudendo gli occhi e facendo il conto di tutti i nazisti che ho ucciso durante la guerra, ma questo non fa che deprimermi ulteriormente: vorresti ammazzare l'ingiustizia eppure finisci sempre per ammazzare degli uomini. Camus ha scritto che si condanna a morte un colpevole ma si fucila sempre un innocente. È un dilemma eterno e infernale: l'amore dei cani e l'orrore del branco.

È davvero terribile amare gli animali. Quando in un cane si vede un essere umano, non si può fare a meno di vedere un cane in qualsiasi essere umano, e di amarlo
La provocazione è la forma di legittima difesa che preferisco.

lunedì 13 giugno 2016

Ermanno Cavazzoni,


La cicala effettivamente passa l'estate a cantare (in greco si dice acheteper questo), ed è falso che poi d'inverno vada a chiedere il cibo alla formica, sia perché la cicala si nutre di rugiada, dice Plinio(Nat. hist., XI, 32), sia perché non ha la bocca, ma una specie di piccola lingua con cui lecca la rugiada. Poi se la cicala si presentasse alla porta della formica il primo problema sarebbe quello della comunicazione, perché è noto che le formiche non parlano, o se parlano, parlano talmente piano che nessuno finora, anche con degli apparecchi acustici, è riuscito a sentirle.