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mercoledì 30 gennaio 2013

Consigli




Per capire se la persona che avete appena conosciuto fa per voi, conviene dormirci sopra una notte.
















Dubbi



Ogni tanto sono presa dai dubbi poi, con convinzione, mi lasciano andare.




Late comers



"La verità m'appare d'un tratto: quest'uomo morirà presto. Di sicuro lo sa anche lui; basta che si sia guardato ad uno specchio: di giorno in giorno rassomiglia sempre più al cadavere che sarà. Ecco che cos'è la loro esperienza; ecco perché mi son detto tante volte che odora di morte: è la loro ultima difesa. Il dottore vorrebbe pur credervi, vorrebbe mascherarsi l'insopportabile realtà: ch'egli è solo, che non ha capito nulla, che non ha passato; con un'intelligenza che gli s'intorbida, e un corpo che si sfascia. E allora egli ha apprestato ben bene, ha ben sistemato e imbottito il suo piccolo delirio di compensazione: dice a se stesso che progredisce". Jean-Paul Sartre

La nostra civiltà a confronto con una più arretrata, come gli Hunza, fa venire la nausea.


Ogni tanto vado a riguardare cose già messe (17 gennaio 2013). Oggi, cliccando il link che riporta alla pagina di Wikipedia sul popolo degli Hunza, vedo che non c'è più traccia nella pagina del tipo di vita ed alimentazione quasi vegana di questa popolazione, della longevità e degli studi condotti su di loro. Da qui ho deciso di riportare le notizie a cui io facevo riferimento per permettere a chi legge di capire a cosa alludevo. (pur continuando a non capire come mai su wikipedia siano state tolte queste informazioni -sempre che non sia a sbagliarmi)

La longevità degli hunza [7] [modifica]

La popolazione degli hunza viene talvolta menzionata per la sua aspettativa di vita eccezionalmente lunga [8] Ralph Bircher uno dei maggiori studiosi di questo popolo di circa 10.000 individui, riporta alcune caratteristiche sbalorditive, quasi leggendarie, nel suo libro Gli hunza, un popolo che ignorava la malattia [9], ovvero:
- sono quasi esclusivamente vegani (la carne era consumata poche volte l'anno e i prodotti di origine animale piuttosto raramente);
- la dieta si basava su un apporto calorico inferiore alle 2000 kcal, nonostante i lavori piuttosto pesanti che svolgevano;
- praticavano un duro semi-digiuno stagionale a causa dell'assottigliamento delle scorte dei viveri in attesa del nuovo raccolto;
- gli indumenti che indossavano erano poco adatti, secondo i parametri comuni, a sostenere i rigori invernali;
- l'età media riguardo alle aspettativa di vita era calcolata a circa 120 anni;
- l'efficienza fisica e la smagliante salute permaneva fino a tarda età;
- non si conoscevano malattie (prima dell'arrivo massiccio dei prodotti della civiltà consumistica).
La longevità e la salute perfetta degli hunza hanno fatto avanzare diverse ipotesi a questo riguardo. Le più attendibili riguardano...
- la dieta naturale e vegetariana e il semi-digiuno obbligato stagionale;
- l'altitudine e l'ambiente incontaminato in cui vivono;
Altri ipotizzano addirittura che l'elisir della loro lunga vita fosse il torrente a cui attingevano l'acqua con particolari virtù salutari (virtù dovute, probabilmente alla completa mancanza di fluoro). I vari studiosi di "questo popolo greco dell'Himalaya" che si sono succeduti hanno riscontrato che la loro longevità e salute si siano andate degradando con il passare del tempo. Già nel 1979 lo stesso Ralph Bircher riporta la notizia a lui pervenuta tramite conoscenze che il paese aveva ormai perduto la sovranità e la sua influenza; al posto del re (mir) c'era adesso la polizia pakistana; inoltre i prodotti, se non altro alimentari, della civiltà consumistica sembra avessero ormai invaso tutti i villaggi hunza.[10]

L'indagine di McCarrison [modifica]

Durante il periodo fra le due guerre mondiali, il medico scozzese McCarrison operante nel circondario di Gilgit, a Nord del Cachemire, rimase colpito dalla conformazione fisica e dalla incredibile capacità lavorativa degli hunza, e per quanto riguarda la sua ricerca sulle malattie trovava questo popolo insignificante dato che non aveva nulla da curare se non qualche trauma o frattura. Infine abbandonò le sue ricerche riguardanti il campo delle malattie per dedicarsi ad esaminare accuratamente questa ottima condizione salutare degli hunza, da lui reputato il popolo più sano della terra. A parte gli accessi di febbre brevi e violenti e qualche infiammazione agli occhi causata dal fumo del riscaldamento nelle chiuse abitazioni durante il periodo invernale, non v'erano malattie particolari né quelle dovute all'invecchiamento (nessuna diminuzione della capacità uditiva e visiva, né indebolimento degli organi; i denti rimanevano perfetti ed efficienti fino a tarda età). McCarrison esaminando diversi i fattori essenziali quali le condizioni climatiche, la razza, l'alimentazione, ecc. arrivò alla conclusione che il regime alimentare fosse la chiave per capire l'enigma dell'incredibile salute e longevità degli hunza rispetto anche ai popoli confinanti che vivevano più o meno nelle stesse condizioni ambientali contraendo varie malattie, come tubercolosi, malaria, e tante altre più o meno gravi. McCarrison in definitiva viene ad elencare queste condizioni alimentari:
- autosufficienza alimentare
- assenza di prodotti industriali e commerciali a livello mondiale (zucchero, conserve, cibi raffinati, ecc.)
- cibi prevalentemente crudi. L'alimentazione base degli hunza è costituita dai prodotti freschi coltivati in loco quali: cereali, frutta, e in misura inferiore legumi (fatti germinare, in certi periodi dell'anno, insieme ai cereali e mangiati così crudi) e latte. La carne e il vino venivano raramente consumati.
L'ipotesi di McCarrison venne confermata dai suoi stessi esperimenti praticati su due popolazioni diverse di topi, le quali venivano alimentate rispettivamente con due diete particolarmente differenti: una simile a quella praticata dagli hunza e un'altra come quella in uso nella civiltà occidentale (farina bianca, dolciumi, conserve, carne, marmellate, ecc.). Questo esperimento significativo attestò la longevità, la perfetta salute e l'ottima convivenza nel primo gruppo di topi alimentato secondo il regime alimentare praticato dalla popolazione degli hunza. Mentre il secondo gruppo rimaneva affetto da malattie e da una aspettativa di vita molto inferiore oltre al fatto che si riscontravano numerosi casi di cannibalismo. Questa ricerca pioneristica riguardo alla correlazione tra il tipo di alimentazione e la longevità e salute verrà successivamente confermata da altri studiosi.

Agricoltura, allevamento e sussistenza [11] [modifica]

L'economia degli hunza, fino a pochi decenni fa, era prettamente chiusa o meglio di sussistenza e si basava sull'agricoltura che veniva praticata sui loro "terrazzamenti" (mesas), in maggior parte però quasi sterili. Nel poco terreno fertile dunque si coltivano alberi da frutta, in particolare albicocchi, e altri prodotti riportati sotto (vedi Dieta hunza). Il riciclaggio in questo ambiente naturale viene praticato al massimo: i ramoscelli ottenuti della potatura vengono recuperati e utilizzati poi come combustibile nei mesi invernali più rigidi; allo stesso modo lo sterco dei pochi capi di bestiame (mucche, capre e pecore, utilizzate perlopiù per il latte) viene fatto essiccare e immagazzinato per poi bruciarlo d'inverno. La carestia stagionale che colpiva nel periodo primaverile, prima del raccolto, sembra fosse andata peggiorando con il tempo e il regime dietetico già spartano degli hunza diventava sempre più insufficiente, data la fisionomia dell'aspro e sterile territorio e la carenza di fonti acquifere, senza nessuna possibilità di irrigazione, in concomitanza oltretutto con l'aumento della popolazione. Questa cosiddetta primavera di fame, iniziava pressappoco dopo la festa di ringraziamento, il Bop-Faou, (come viene riportato da Lorimer nel 1935), durante la quale si implorava la fecondità della terra con riti cerimoniali solenni e giochi di destrezza, a cui seguivano settimane di semi-digiuno coincidente con i più duri lavori nei campi. Nonostante la carestia gli hunza rimanevano un popolo legato e solidale, allegro, ospitale e generoso, esente da avarizia ed egoismo, dignitoso, nonostante gli stenti, tanto che Lorimer riporta nel suo diario di bordo casi incredibilmente eclatanti e commoventi di ordinaria abnegazione, aggiungendo inoltre che "la fame non ha nessuna influenza sull'umore di questa gente, non arriva a piegare il loro temperamento".[12] Questa economia di sussistenza negli ultimi decenni si è aperta al mercato globale con afflusso di prodotti alimentari esterni più sofisticati che di certo hanno mutato in qualche grado la fisionomia, la cultura, gli usi e costumi degli hunza.

Dieta hunza [modifica]

La dieta degli hunza di qualche decennio fa (riportata da diversi studiosi specialmente da McCarrison e Wrench) era costituita in gran parte da alimenti di origine vegetale prodotti in loco: orzo, miglio, grano saraceno, grano [13] (e quindi l'utilizzo della farina integrale e di una specie di pane azzimo), mais [14] (raro), in misura inferiore legumi (fagioli, piselli, lenticchie, fave, ceci), frutta (more, mele, uva, ciliege, prugne, pesche, giuggiole, melagrane, meloni, pere, mandorle, noci) e specialmente albicocche fatte essiccare (delle albicocche si utilizzavano anche i noccioli da cui si ricavava anche un tipo d'olio), patate, verdure varie, carote, zucche, cavoli, cetrioli, melanzane, pomodori, erbe selvatiche ed aromatiche. Il vino veniva consumato in rare occasioni, perlopiù coincidente con particolari eventi. Per quanto riguarda i prodotti di origine animale abbiamo il latte (specialmente di YAK), formaggio fresco (brus) e da conservare (rahkpin), ricotta (quark), il burro o maltache (alimento preziosissimo); la carne, in genere ricavata dal bestiame minuto (pecora, capra, gallina), era utilizzata raramente ma mai assente.[15] L'unico prodotto importato e usato con parsimonia era il salgemma proveniente dalle zone vallive vicine.



Aggiungo anche la spiegazione al senso di "La Nausea" di Sartre:

<<La nausea che prova il protagonista del romanzo - Antoine Roquentin - deriva proprio da quella condizione di sostanziale gratuità della vita, ovvero il sentire la vita come priva di un senso necessario. Ma vi è anche l'estraneità della coscienza nei confronti della natura, vista come brutalità priva di alcuna coscienza.
La nausea è quindi un romanzo filosofico nella misura in cui ripropone, sia pure in maniera del tutto originale, una specie di dualismo tra ciò che è cosciente e ciò che è incosciente. Per Sartre infatti la coscienza è l'elemento che distingue due categorie ontologiche distinte, appartenenti a due livelli ben distinti dell'essere.
La vita, secondo Roquentin, nel momento in cui ci appare come un unico e inevitabile flusso di esperienze senza un senso proprio, provoca la grande vertigine della nausea. Si può dunque dire che Sartre lamenta il fatto che la realtà non ci dia significato da sé, ma che è la coscienza dell'uomo a doverglielo dare. In questa impresa l'uomo è del tutto solo, perché non c'è un Dio a cui fare riferimento e porre domande.
Questa possibilità, che è anche un compito, aperta all'uomo, è per diversi aspetti la stessa che provoca l'angoscia in Soren Kierkegaard, ma in quest'ultimo c'è una visione salvifica del Cristo a dare speranza.
Non esiste un essere necessario "Dio" che possa dare significato dall'esterno a questa condizione esistenziale. L'esistenza è di per sé già compiuta nella sua evidenza, l'esistenzaè assoluta e gratuita.
La condizione di chi si sente esistere è già vissuta come un esistente, seppure assurda perché senza uno scopo apparente, viviamo per vivere e per morire, gli eventi ci vengono incontro come fenomeni e non possiamo dedurli se non vengono in contatto con il nostro Io.>>







Cronaca



Un cane può essere pericoloso.
Accade che ti attacchi così violentemente
da non uscirne vivo.










domenica 27 gennaio 2013

Un uomo spicciolo



è di scarso valore.




Direzione



Se aspettate che i vostri dubbi piglino direzione, la confusione regnerà suprema.



Polline



Per me la vita potrebbe anche essere tutta rose e fiori.
Non sono allergica ai pollini.



Razzismo



- Vedi...La discriminazione razziale non si basa solo sul colore della pelle.
- N'ero certo.






Dimagrire



I crudisti bruciano quello che mangiano?



A pagamento



L'amore corrisposto è quello a doppio senso.
E' una battuta?











Avanti March!



Ah no. C'è ancora febbraio.






"Alla mia età"



Ho una memoria di ferro. Dentro ci sono un mucchio di lamenti.










venerdì 25 gennaio 2013

No smoking




E' giusto il proliferare sempre più di locali "no smoking" però dovrebbero evitare l'ingresso anche alla gente gessata.






mercoledì 16 gennaio 2013

In generale, non aspettatevi mai troppo.




A meno che non vi scopriate tardi.




Dilemma



Non si può fare di ogni parola un idiotismo.



                                                                                   
Dato un segmento AB di una lunghezza a piacere









con un compasso aperto di una lunghezza inferiore al segmento,
mettiamo la parte fissa sul punto A e con quella mobile andremo, con un semicerchio, ad intersecare la linea










poi faremo la stessa cosa sul punto B, mantenendo la stessa apertura del compasso




Ora, munendoci di un libro od altro oggetto di forma rigida, piatta e lineare, tracciamo una linea che va a tagliare i due semicerchi nei punti che si incrociano, e nel nuovo punto che incontra la retta, O, avremo trovato la metà del segmento:










(se avete un righello graduato, potete evitare i passaggi precedenti).


A questo punto, O, mettendoci  il compasso ed aprendolo della lunghezza del segmento AO, disegniamo un semicerchio partendo dal punto A fino al punto B.










Questa figura così generata, comunque la giriate










rimane tale.
Perciò possiamo concludere che, con questo semplice metodo, siamo risaliti al lemma della D.









giovedì 10 gennaio 2013

Pertica




C
h
i
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m
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Reduce




Mussolini nella seconda guerra mondiale era un reDuce della prima.





Eccellente




L'autoerotismo è un amore da manuale.




Dieta efficace



In seguito ad accreditate e lunghissime ricerche di un autorevole critico della tv, Grasso, si è giunto a sostenere che per non essere come lui, è sufficiente sintonizzarsi su un qualsiasi quiz televisivo all'ora di cena per farsi cadere le braccia ed essere così impossibilitati a portarsi il cibo alla bocca.













mercoledì 9 gennaio 2013

Ricomincerei tutto daccapo



Stasera  faccio questa cosa perchè penso che sia un bene, riprendere un pensiero, fastidioso, lasciato lì per tanto tempo, un qualcosa abbandonato in un angolo a scongelare che ogni volta ti torna in mente non hai più voglia di assaporare. Un modo voluto per scacciare tutto quello che ha diritto, invece, di restare.

Dicono che ci siano momenti in cui il tempo si ferma. Non è così. E' il cuore, che non ammette il meno male, nel prendersi, stringersi e spezzarsi, nell'incontro a due, nello scambio improbabile di una fede. L'anello di Re Salomone.
L'amore emigra internamente, tra le regioni corporali, su un treno a lunga percorrenza, mentre scegli l'appellativo, l'unico tuo dei tre, in quattro e quattr' Otto fino a cambiarne l'ordine per ricordarne, vagamente, l'origine; quello che ti mette continuamente alla prova, escludendo l'ultima, che mentre lo guardi nell'aria sorniona dopo una marachella ti fa tornare in mente quella solfa infantile di cautela: se non la smetti, ti dò le totò.
L'amore fedele, che non è patrimonio dell'umanità, ti comprime il cuore e te lo fa pesare mentre, per giorni, scrivi i ricordi, a pezzi, un resoconto, buttato giù, senza mai rialzarsi dal tappeto, compenetrazione d'animo. E non serve rivangare per trovare pace, ora che l'umore è sotto terra per ogni volta che ho pensato non ci fosse felicità più grande che incontrare quegli occhi che ho dovuto chiudere con la mano, abile, ad ascoltare i battiti che si mescolavano, diversamente intanto che alcuni svanivano altri rimbombavano, ed impedirti di guardare mentre trattenevano l'ultima tua lacrima che andava a confondersi in un mare di pregio cristallino, fino a che ti abbracciavo e pensavo che nulla mi avrebbe spostato da quella posizione che avrei sposato: ti mette in ginocchio e ti fa chiedere una mano per rialzarti. La fine come l'inizio, quando lo capisci che viene meno la confidenza, che non bisogna appesantire la struttura per non compromettere lo scheletro ed evitare di uscirne con le ossa rotte, che ti prende in contropiede e ti fai investire da mille emozioni che non riesci a gestire.
 Ripenso a tutte le ore dei nostri ultimi giorni troppo veloci e non so porre rimedio per non averlo saputo prima e per la tristezza percepita e coccolata. Rimangono le abitudini, svegliarsi di notte ed ascoltare i respiri, ingannarsi ogni volta che lo sguardo corre, senza uscita, oltre la finestra, sbagliando per non guardare dentro. Si conservano i luoghi di tua unica proprietà. Si rinviano immagini da scaricare il peso che riportano sotto al noce, nell'angolo di casa da cui facevi capolino.
 Ci si congeda dagli altri e da ciò che tiene impegnato superficialmente, e si torna a casa riprendendo i pensieri da dove erano rimasti, senza guardare indietro dove persistono le tracce di altri viaggi nei sedili posteriori, ricoperti a strati, pensieri che accarezzano la mente come un manto e ci si inganna di ritrovare tutto come prima, tu nel giardino che aspetti spaventato e poi dalla gioia corri a perdifiato.
Rimane la memoria ed il cercarti ed immaginarti come sarebbe per ogni situazione. Rimangono gli altri, avvicinati per strada, ad osservarli, a domandare da quanto stanno insieme perchè certe creature, in questi rapporti, esprimono così tanta passione che non mostrano un tempo, o le corrispondenze tra sconosciuti a confrontarsi di emozioni, od una lettera a quattro mani come questa di un'anima senza la quale pareva non potessi vivere.
Troppo tardi ho messo in pratica mentalmente quei comandi mai usati. Seduto, perchè fa male vederti così, vieni, che non so resisterti, terra, senza abbandonarla e l'ultimo, un'invocazione disperata, resta, perchè voglio trovarti lì ogni volta che torno.

L'amore fa tornare bambini e quando se ne va, invecchi all'improvviso.




(Spengo l'ultima illusione. Un fioretto che avevo promesso a questo grande amore).


domenica 6 gennaio 2013

Fame



La conoscenza forse è un pò come la nutrizione. Tanta gente che ha fame di cultura e, per una specie di metabolismo veloce, non assimila mai niente.





“Io non lavoro con la trama. Lavoro con l’intuizione, la percezione, i sogni, i concetti. La trama implica la narrazione e un sacco di stronzate. Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre all’eccellenza”




Questa recensione potrebbe iniziare così: I racconti di John Cheever sono il più bel libro uscito in Italia nel 2012. Poi qualcuno andrebbe in libreria; gli basterebbe leggere, per esempio, quelle quattro pagine che compongono “Il baco nella mela” e che cominciano così: “I Crutchman erano così felici, ma così felici, e così moderati in tutte le loro abitudini, e così contenti di tutto quello che gli capitava, che si era portati a sospettare che ci fosse un baco in quella mela così rosea e che lo straordinario colore rosato del frutto servisse solo a nascondere la gravità e la profondità dell’infezione”; immediatamente sarebbe meno scettico sull’elogio lapidario, e si convincerebbe a acquistare questo libro, nonostante la composizione (sono racconti!), la mole (850 pagine) e il prezzo (40 euro).
Oppure questa recensione potrebbe parlare della capacità che ha John Cheever – uno scrittore ancora di nicchia in Italia (questa traduzione completa delle short stories arriva trent’anni dopo l’uscita americana che fu un best-seller da un milione di copie e che gli valse il Pulitzer; i suoi libri sono stati editi da Longanesi, Garzanti, e infine Fandango grazie soprattutto all’interesse di Sandro Veronesi e Leonardo Luccone) – di far parte del nostro immaginario nostalgico senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. In un’intervista recente sul New York Times, Matthew Weiner, il creatore di Mad Men, ammetteva il suo debito assoluto nei confronti di questo cantore dell’America dei suburbia, tale da averlo omaggiato facendo vivere i protagonisti, Don e Betty Draper, negli anni del loro matrimonio proprio a Ossining (la città in cui dopo il successo commerciale di Cronache della famiglia WapshotCheever si trasferì nel 1961 per morirci nel 1982) e proprio in un’immaginaria Bullet Park Road (doveBullet Park è il titolo del terzo romanzo di Cheever, 1969).
Case basse, vialetti alberati, grigliate in giardino, qualche bicchiere prima di cena, sigarette aspirate con voluttà, adulteri immaginati e vissuti… Quel mondo ipernormale ma evocativo che conosciamo in ogni singola goccia che l’innaffiamento automatico del backyard deposita sull’erba tagliata la domenica dai padri di famiglia. E qui la questione si potrebbe direttamente allargare e porre in un altro modo: perché questo grumo di famiglie apparentemente perfette in preda invece a ipocrisie lancinanti, tensioni carsiche (da Revolutionary Road a Le vergini suicide, da American Beauty a Desperate Housewifes), perché questa umanità di tragiche convenzioni sociali è così simbolica di come la vita accada e si plasmi non solo nelle periferie USA ma nell’intero universo?
Leggere questi racconti di Cheever ci dà una parziale risposta. Per noi, dall’altra sponda dell’Atlantico, monadi esplose di relazioni che non sono neanche più disfunzionali, non è tanto interessante vedere come si incrini il sogno americano, come sotto l’ombra degli alberi allineati lungo i viali le velleità diventino incubi e gli affetti paranoie (leggete “Oceano”, in cui il protagonista si convince che la moglie lo stia progressivamente avvelenando). L’importante non è capire come “in questo mondo così prospero, equo e vincente – dove persino le donne delle pulizie nel tempo libero si esercitano sui preludi di Chopin – debbano avere tutti un’aria così delusa”, come scrive in quella dichiarazione di poetica che è il racconto “La morte di Justina”. Così come non serve a molto definire John Cheever il Cechov d’America per quel suo palmare, favoloso talento nel descrivere questa abitudine che hanno gli esseri umani di autoingannarsi, di immaginarsi che la felicità li aspetti sempre in un altrove, che sia Mosca, o l’Europa, un matrimonio perfetto, un definitivo riconoscimento sociale.
No, quello che veramente ci può incantare di questo scrittore è l’amore, l’amore generosissimo, strabordante che ha per i suoi personaggi. Tutte le volte che temiamo – a poche righe dalla fine di ogni racconto – che Cheever li lasci in balia della loro fragilità e li condanni a un destino di autodistruzione, ecco che invece – come scrive in una sorta di a parte in “I gioielli dei Cabot” – le cose vanno diversamente. (“I bambini annegano, donne bellissime vengono maciullate in incidenti stradali, le navi da crociera affondano e gli uomini muoiono di morte lenta nelle miniere o nei sottomarini, ma non troverete niente di tutto questo nei miei racconti. Nell’ultimo capitolo la nave rientra in porto, i bambini vengono salvati, i minatori vengono estratti da sottoterra”)
Fernanda Pivano, che lo mise nel mucchio dei suoi amici americani, addolorati, vagamente depressivi, sbagliava. Cheveer non è uno scrittore clinico come un Carver, sferzante come un Ford, autoindulgente come i beat, spietato come uno Yates, rigoroso come Hemingway e i suoi seguaci minimalisti. Cheever è uno scrittore che trasmette buon umore, se non addirittura gioia. Perché la sua forza sta proprio nel non considerarsi un narratore morale: “Io non lavoro con la trama. Lavoro con l’intuizione, la percezione, i sogni, i concetti. La trama implica la narrazione e un sacco di stronzate. Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre all’eccellenza”, così rispondeva alla Paris review nel 1976. Questa beata incoerenza al limite della schizofrenia che esplode nei pensieri dei suoi personaggi (l’empatica prefazione di Andrea Bajani legge la sua narrativa come maieutica del mondo: Cheever una sorta di radio universale), un critico la può facilmente associare alla sua bisessualità mai risolta, o al suo cattolicesimo ovviamente conflittuale. Ma, se lasciassimo da parte le facili polarità convenzioni-autenticità, perbenismo-trasgressione, potremmo godere di uno scrittore incredibile non tanto per la sua capacità di ritrarre la società, né per la sua spiazzante visione morale, quanto per una sorta di contemplazione teologica della natura umana. Proprio perché conosceva la verità sul peccato, sapeva omaggiare anche la forza della grazia. Due guerre mondiali, la paura per un’economia che potrebbe collassare da un momento all’altro, l’incubo nucleare: e il mondo è ancora lì. Per questo lo sguardo di Cheever è quello dell’innamorato, di colui che sempre perdona, che sa che le cose si aggiusteranno. Potete ritrovarlo in ogni pagina di questi racconti (“Era una di quelle domeniche di mezza estate in cui tutti se ne stanno seduti e continuano a ripetere: “Ho bevuto troppo ieri sera”, come comincia il virtuosistico “Il nuotatore”; oppure “È autunno. Le foglie hanno cambiato colore. Cadono a centinaia, anche se non c’è vento. Penso che per riuscire a vedere qualsiasi cosa – una foglia o un filo d’erba – bisogna conoscere l’intensità dell’amore”, come inizia “Il quarto allarme”). Se imparate a fidarvi, potrete riconoscerlo nei romanzi che Feltrinelli ha appena ristampato in tascabile (Wapshot e Bullet Park), o ancora nei Diari che sempre Feltrinelli farà uscire in autunno sempre con la reverenda traduzione di Adelaide Cioni. Capirete facilmente che in quell’umanità sospesa tra una crisi planetaria come quella del ’29 e un viaggio sulla Luna come quello del ’69 ci siete anche voi; ma che con lo sguardo di Cheever accanto vi sentirete meno smarriti. “L’ondata di mansarde fintissime, di finestre fintissime, con i vetri piccoli, di candele elettriche, è il grido di un popolo che si sente solo, solo. E dopo che abbiamo aperto mille porte tagliate grezzamente, con le loro finiture di finto ferro battuto; dopo esserci scaldati davanti a un fuoco elettrico e aver letto un menu che è la riproduzione di qualcosa di due secoli fa, sentiamo che il passato non ci sfamerà e non ci capirà e non ci amerà; e allora ci rivolgiamo al futuro, a quello spazio fra le stelle dove ci aspetta il nostro amore”.